“Incontri con uomini straordinari”: Madame De Salzmann non ne fu mai soddisfatta [2]

"Incontri con uomini straordinari": Madame De Salzmann

“Incontri con uomini straordinari”: Madame De Salzmann non ne fu mai soddisfatta [2]

Quando arrivò il momento di montare il film, Madame de Salzmann fu di nuovo con noi ogni giorno e valutava il passaggio da una ripresa all’altra in termini di successione degli schemi d’energia. Quando John Jympson, montatore inglese di grande esperienza, presentava una sequenza completa e accurata, che aveva rifinito fino all’ultima inquadratura, lei non ne era soddisfatta e proponeva sempre altre correzioni. Allora lui usciva dalla sala di proiezione brontolando tra sé e sé, ma in cuor suo era pieno di ammirazione.

Io e Natasha a Kabul dividemmo la casa con Madame de Salzmann. All’ingresso fu sistemato un rumoroso proiettore contenuto in un grande cubo di metallo e quel giorno stesso vedemmo le nostre prime stampe, appena arrivate dal laboratorio londinese dopo settimane di lavorazione. Avevamo iniziato le riprese con la prima sequenza e per più di un’ora guardammo gli spezzoni di questa scena d’apertura: i cavalieri e la folla che scendono dal fianco della collina giù a valle per ascoltare i musicisti.

La sequenza era stata preparata bene e guardandola ci sentimmo tutti sollevati e contenti: era riuscita come avevamo sperato e sembrava una base incoraggiante per il resto delle riprese. Soltanto Madame de Salzmann restava in silenzio. Conoscendola, non ci aspettavamo neanche lontanamente che fosse soddisfatta e ancora meno che esprimesse anche un semplice apprezzamento; ma quando uscì dalla stanza, assorta nei suoi pensieri, rimanemmo un po’ scossi.

Quella sera a cena parlò poco e neanche allora discutemmo le stampe viste. Fu soltanto alla fine del giorno seguente che espresse quanto a poco a poco aveva maturato nel corso delle sue riflessioni. “Manca qualcosa” disse, con una frase cui ricorreva spessissimo: ”Il y a quelque chose qui manque”.

“Nella scena vi sono i musicisti, vi è la folla, vi sono i giudici,” continuò, “eppure manca qualcosa, un qualcosa per collegarli tutti a un livello che non può essere mostrato. Non è un’idea, deve essere rappresentato da qualcuno che abbia in sé la forza di una vera tradizione. I nostri giudici sono bei vecchi con le barbe bianche, ma non basta. Non hanno il peso necessario. Abbiamo bisogno di qualcuno con una presenza autentica. Ma di fatto un uomo non è sufficiente; dovrebbero essere in tre a condurre questa cerimonia e devono essere credibili. Senza di loro mancherà sempre qualcosa. Dobbiamo metterceli.”

Come spesso accadeva, tentai invano di spiegarle gli aspetti anche prosaici del fare un film. Avevamo girato la scena cinque settimane prima in una sperduta valle di montagna. Si stava avvicinando la fine della nostra permanenza in Afganistan. Il nostro programma di lavoro e il nostro budget limitato non ci avrebbero permesso di girare di nuovo questa scena che era la più costosa. E, in ogni caso, il materiale che avevamo era buono.

“Basta che tu ci metta dentro alcune comparse,” disse lei.

Le spiegai che era tecnicamente impossibile, perché tre personaggi importanti non possono essere infilati in una scena una volta che è stata filmata. “Oltre tutto,” aggiunsi, “le facce buone del bazar le conosciamo già tutte. Dove trovarne di nuove?”

Capii dalla sua espressione che era inutile discutere: lei sapeva quel che era necessario e spettava a noi trovare una soluzione. Naturalmente, dopo averne discusso con il montatore e l’operatore e avere riesaminato la scena, inquadratura per inquadratura, ci rendemmo conto che tecnicamente era possibile trovare soluzioni. Non era necessario radunare di nuovo tutta la folla; sarebbe bastato ricostruire una piattaforma, mettere una ventina di comparse in posizioni strategiche e avremmo avuto materiale da inserire nel film, senza che si notasse. Ma dove avremmo potuto trovare tre uomini con una presenza spirituale?

Il giorno seguente era di pausa per tutti. Me ne stavo seduto sulla terrazza della nostra casa, quando vidi avvicinarsi tre uomini vestiti con tuniche bianche. Non erano vecchi, avevano il portamento eretto e nobile e venivano in visita: spiegarono che erano gli anziani di un khanakar e che, avendo saputo della nostra attività, desideravano porgerci i loro omaggi. Osservandoli mi resi conto che stavo guardando le facce di cui avevamo bisogno e corsi a chiamare Madame de Salzmann, sebbene sospettassi di queste straordinarie coincidenze e non potessi credere che avrebbero mai accettato di apparire in un film. Dopo un po’ che eravamo seduti insieme a parlare, sentii che non avevamo niente da perdere e così avanzai la proposta. “Non ho mai visto un film,” rispose uno di loro, “ma mio figlio che vive in America mi ha detto di che cosa si tratta. Penso che ciò che voi intendete fare potrebbe essere utile ad altri. Saremo contenti di assecondare i vostri desideri se questo potrà esservi d’aiuto.” Qualche giorno dopo erano sul set, facevano tutto ciò che si chiedeva loro in modo impeccabile e professionale e conferivano alla scena quella presenza autorevole che mancava.

Alla proiezione del film qualcuno rimase deluso trovandolo troppo semplicistico sul piano cinematografico, troppo esotico nelle immagini, troppo ingenuo nella narrativa. Certamente, quando alla fine si arriva al monastero sperduto, i danzatori radunati lassù, vestiti di bianco, sono inequivocabilmente europei: un aspetto difficile da digerire dal punto di vista di una normale logica narrativa. Ma quello che conta sono le danze in sé, sconosciute, uniche. Non erano mai state mostrate prima; si tratta di movimenti autentici, ricreati secondo i complessi principi che Gurdjieff aveva scoperto durante i suoi viaggi e trasmesso direttamente a Madame de Salzmann che a sua volta li aveva insegnati ai suoi allievi. E’ interessante tuttavia notare che la maggior parte degli spettatori oggi resta profondamente toccata dalle danze e dagli esercizi e non si preoccupa minimamente della mancanza di verosimiglianza nel contesto della storia.

So bene che la stessa Madame de Salzmann non fu mai pienamente soddisfatta del film, anche se non me lo disse mai. Sento che avrebbe dovuto confrontarsi con un pensiero ancora più forte del suo, di fronte al quale sarebbe stata pronta a cedere. Ma senza tale tensione, che di certo non ero in grado di portare, ciò che aveva davvero in mente non poté mai trovare espressione. Credo, tuttavia, che chiunque guardi e ascolti il film nel modo in cui è proposto può sperimentare una purezza, una qualità speciali e che appartengono interamente a lei e può avere, come nessuna spiegazione riuscirebbe a rendere, un assaggio diretto di che cosa sia una ricerca, di che cosa significhi un altro livello di consapevolezza.
Quando Madame de Salzmann morì all’età di centouno anni, fu come se avesse portato via con sé il centro della vita. Adesso, dopo un lungo e grigio periodo di lutto, la realtà del presente è riemersa, un presente che attende di essere servito in modo diverso da quanti hanno avuto la fortuna di condividere ciò che era stato trasmesso dalla sua influenza. La vita continua, una nuova generazione avanza ed è più che mai vitale il bisogno del mondo di uno strumento vivente di conoscenza. L’enigma della tradizione e il mistero della trasmissione non possono cambiare, ma esiste sempre la grande serie di chiavi.


(Peter Brook, “I fili del tempo. Memorie di una vita”)

Nessun commento

Scrivi un commento