10 Feb Fontainebleau 1923
Ogni sera dopo cena, incominciava una nuova vita. Non vi era fretta. Alcuni passeggiavano in giardino. Altri fumavano. Intorno alle nove ci recavamo, da soli o in due o tre, alla Study House. Ci toglievamo le scarpe che impiegavamo per l’esterno e calzavamo scarpe morbide o mocassini. Ci sedevamo in silenzio, ciascuno sul proprio cuscino, attorno al pavimento nel centro. Gli uomini sedevano a destra, le donne a sinistra; mai insieme.
Alcuni andavano direttamente sul palcoscenico ed incominciavano a praticare gli esercizi ritmici. Al nostro primo arrivo, ciascuno di noi aveva il diritto di scegliere il proprio insegnante per i movimenti. Avevo scelto Vassalli Ferapontoff, un giovane Russo, di alta statura, con un viso serio e studioso. Portava occhiali a pince-nez, ed aveva l’aspetto dell’eterno studente, Trofinmov, nel Giardino dei Ciliegi. Era un istruttore coscienzioso, sebbene non un brillante esecutore. Giunsi ad apprezzare la sua amicizia, che proseguì fino alla sua prematura morte dieci anni dopo. In una delle nostre prime conversazioni, mi disse che si aspettava di morire giovane.
Gli esercizi erano molto simili a quelli che avevo visto a Costantinopoli tre anni prima. I nuovi allievi, come me, incominciavano con la serie chiamata i Sei Esercizi Obbligatori. Li trovai immensamente stimolanti, e lavorai duramente per acquisirli rapidamente in modo da poter partecipare ai lavori della classe generale.
In quel periodo, Gurdjieff stava preparando una classe speciale, composta quasi esclusivamente di Russi, per dare dimostrazioni pubbliche. La classe generale poteva imparare tutti gli esercizi nuovi, ma non prendeva parte alla formazione speciale riservata alle classi di dimostrazione.
Il metodo che Gurdjieff aveva di creare nuovi esercizi aveva una spontaneità viva, che era il segreto del suo successo come insegnante. Mentre i nuovi allievi praticavano sul palcoscenico, alcuni dei Russi si incontravano attorno al pianoforte, ove sedeva Thomas de Hartmann con il suo capo calvo sollevato come quello di un uccello. Gurdjieff incominciava a battere un ritmo sulla parte superiore del pianoforte.
Quando questo era chiaro per tutti, egli mormorava una melodia o la suonava sul pianoforte con una sola mano e poi se ne andava. De Hartmann sviluppava un tema che si adattasse al ritmo ed alla melodia. Se non andava bene, Gurdjieff urlava contro di lui e de Hartmann urlava furiosamente in risposta.
Poi la classe dei più anziani si metteva in file, e noi ci mettevamo di lato a guardare, oppure tornavamo ai nostri posti sul pavimento. Gurdjieff insegnava le posture ed i gesti parzialmente eseguendoli egli stesso, oppure, se erano complicati, e comportavano movimenti differenti per file o posizioni differenti, egli si spostava e posizionava ogni allievo nella postura desiderata.
Vi erano liti veementi. Il palcoscenico diveniva un caos di discussioni, gesticolare e grida mentre gli allievi cercavano di elaborare la sequenza richiesta. Improvvisamente Gurdjieff cacciava un urlo perentorio e ne seguiva un silenzio di tomba. Qualche parola di spiegazione, e de Hartmann incominciava a suonare il tema, che nel frattempo egli aveva elaborato in una ricca armonia. Talvolta il risultato era spettacolare; come per magia compariva un bellissimo insieme mai visto prima. Altre volte, il compito era troppo difficile e l’esercizio si rompeva, e vi si lavorava per ore nei giorni successivi.
Oltre alla serie di esercizi, si passavano molte ore ad eseguire ritmi con i piedi seguendo musiche improvvisate da De Hartmann. Talvolta, Gurdjieff impiegava anche il suo famoso Esercizio dello Stop. In qualunque momento del giorno e della notte, egli poteva gridare “Stop!”, e chiunque lo udisse doveva arrestare qualunque movimento. Dapprima, gli occhi dovevano fissarsi sull’oggetto del loro sguardo. Il corpo doveva rimanere immobile nell’esatta postura del momento in cui si era udito “stop” e si doveva conservare il pensiero che era presente nella mente. In poche parole, qualunque movimento volontario doveva essere arrestato e trattenuto.
Lo stop poteva durare pochi secondi oppure cinque, dieci minuti o più. La postura poteva essere dolorosa o addirittura pericolosa; però, se eravamo sinceri e coscienziosi, non dovevamo far nulla per renderla più confortevole. Dovevamo attendere fino a che Gurdjieff non urlasse “Davay” o “Continuate” e allora riprendevamo quello che stavamo facendo prima.
Gli esercizi ritmici erano spesso così complicati ed innaturali che disperavo di poterli imparare. E tuttavia, poco alla volta, succedeva un piccolo miracolo. Dopo ore di sforzo senza risultati e da fare impazzire, il corpo lasciava improvvisamente spazio ed il movimento impossibile si faceva.
I lavori nella Study House proseguivano sempre fino a mezzanotte, e spesso molto più tardi, così che raramente avevamo più di tre o quattro ore di sonno prima di incominciare il lavoro del mattino. A mezzanotte circa Gurdjieff diceva “Kto hochet spat, mojet itti spat”, ovvero “Chi vuole dormire, vada a dormire”. Uno o due si alzavano ed uscivano, ma la grande maggioranza rimaneva, sapendo che spesso le spiegazioni e dimostrazioni più interessanti venivano date dopo che il lavoro regolare era stato fatto.
Copyright © 1962, 2002 John G. Bennett
Questi due brani sono tratti dall’autobiografia di Bennet Witness: La Storia di una Ricerca. Londra: Hodder & Stoughton, 1962, pagine 46-48, 90-91. Pubblicata con la gentile autorizzazione di Bennet Books.
John G. Bennett fu uno scienziato, matematico e filosofo britannico che integrava la ricerca scientifica con studi delle lingue e religioni asiatiche . Mentre si trovava a Costantinopoli nel 1921, durante i postumi della Grande Guerra e della Rivoluzione Russa, egli incontrò sia G.I. Gurdjieff sia P.D. Ouspensky. Questi incontri diedero forma alla direzione del suo sviluppo spirituale e, nell’estate del 1923, egli trascorse tre mesi in Francia presso L’Istituto per lo Sviluppo Armonico dell’Uomo retto da Gurdjieff.
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